Antefatto: questa data del 31 ottobre 2008 al Latte Più Live di Brescia non è la mia prima volta con i Datsuns. In occasione della data al Transilvania Live di Milano, il 1º febbraio 2007, avevo comprato – a un prezzo onestissimo – un box da cinque cd contenente i singoli estratti dal primo album. Tra questi anche In Love, che tragicamente, al ritorno a casa, si era rivelato una custodia vuota, priva del disco all’interno. Quale occasione migliore di un altro concerto, ventuno mesi dopo, per tentare di farsi cambiare il disco? Ad accoglierci (sono in compagnia del caro amico Rick’N’Roll, fotografo rock coi fiocchi) al banchetto del merchandising è una bellezza neozelandese tatuata e sorridente, che prima ancora ch’io abbia terminato di esporre le mie ragioni mi ha già messo in mano un’altra copia del singolo, questa volta completo di cd. Ah! Che donna. E, meraviglia delle meraviglie, chi si materializza proprio lì poco dopo? Phil Datsun, il mio Datsun preferito, il chitarrista ritmico dai capelli lunghissimi, che addirittura si scusa per la faccenda del cd fallato, me lo autografa e, mentre lo passa a Ben per farlo firmare anche a lui, si concede gentilissimo per una fotografia con me. Il ragazzo è chiaramente quello che, tra i quattro, più dimostra di tenere al contatto col pubblico. Prima e dopo il concerto gironzola sempre per il locale, chiacchiera amabilmente e si presta anche a scherzi e sciocchezzuole di vario genere. Non saprei dire se l’idea sia stata sua o di qualcun altro, sta di fatto che è fasciato in metri e metri di garza medica e nastro adesivo argentato, improvvisando così un travestimento da mummia, divertente quanto raffazzonato. I mostri classici hollywoodiani regnano ad Halloween.
Prima dell’attrazione principale, ci godiamo un paio di gruppi niente male. Ad aprire le danze sono i tedeschi Die Pucks, power trio punk rock con una cantante/chitarrista che è uno zuccherino, il bassista ben piantato con la faccia troppo crucca e il batterista rastone grondante. Pezzi one-two-three-four senza pretese, ma ben suonati e piacevoli. Ancora meglio i milanesi The Crooks, che fanno un punk rock’n’roll più vario e influenzato, con il leader Fab O’Loose che si sbatte non poco. La gente c’è, purtroppo però si tiene sul fondo del locale. I pezzi del nuovo album High Society Rock’N’Roll scorrono rapidi, si segnala poi la cover di My Brain Is Hanging Upside Down (Bonzo Goes To Bitburg) dei padrini Ramones (in effetti Fab ricorda Johnny Ramone, soprattutto per la presenza scenica) e, verso mezzanotte, il loro set si conclude tra gli applausi.
Per non sbagliare, ci attacchiamo subito al palco. Precisamente ci mettiamo a metà fra la postazione di Dolf e quella dell’adorato Phil, che intanto è salito sul palco da solo e si sta occupando personalmente del line check. Si piazza alla batteria, la malmena un po’, poi va al basso, fa un paio di riff, è tutto ok. Mentre Phil ridiscende, faccio notare a Rick’N’Roll le modifiche che i Datsuns hanno apportato alle testate dei loro stupendi amplificatori Orange: su due loghi della marca sono stati applicate lettere posticce che fanno diventare una scritta STrange, l’altra DangeR. Scatta il flash, a imperitura memoria.
L’attesa è breve, ma mi sembra comunque troppo lunga. Finalmente, sulle note dello standard jazz A Taste Of Honey («Cos’è‽». «La sigla di Tutto il calcio minuto per minuto». «Aaah!».), i quattro kiwi rocker fanno il loro ingresso saltellante sul palco. Dolf ha una maglietta nera con il disegnino di un razzo e mostriciattoli vari, e la scritta Rocket From The Crypt, nella migliore tradizione del cinema di fantascienza horror anni ’50, possibilmente di serie Z. Se è il titolo di un film esistente, quel film è senz’altro un capolavoro del trash. Dall’altra parte del palco c’è Christian Datsun, il chitarrista solista, quello con l’aria un po’ da rockstar tenebrosa del tipo “Non statemi tutti addosso”. Però, che figurino, anche lui. Capelli curati con la riga da una parte, giacchetta di pelle sulla camicia, jeans a zampa strettissimi di coscia, stivaletti. Botta esplosiva in apertura con i brani più noti del precedente disco Smoke & Mirrors: i pezzi hanno titoli tipo Maximum Heartbreak e System Overload, e in effetti ascoltarli, vederli, viverli è roba da colpo apoplettico o da sovraccarico di eccitazione: immaginate riff tipo garage di fine anni ’60, sparati a velocità punk rock, eseguiti col tiro e la tecnica dell’hard rock, cantati dalla voce sguaiata e sporchissima di Dolf, sostenuta dai coretti puliti anni ’70 di Phil e Christian. Ma, come dicevo, c’è un nuovo album da promuovere, e così ecco le recenti Yeah Yeah Just Another Mistake e Hey! Paranoid People! (What’s In Your Head?), con Christian all’organetto, nonché Human Error (la copertina del singolo è troppo retrofantahorror!).
Fingere di trovare nei Datsuns una grande varietà musicale sarebbe poco onesto e più che altro inutile. I ragazzi che vengono dagli antipodi hanno trovato un loro stile, per me fantastico, e quello propongono, senza preoccuparsi dello spauracchio del “ripetersi”. E proprio perché liberi dall’ossessione del cambiamento a ogni costo, in realtà si sono evoluti senza sforzo. Ai pezzi tamarri di pura accelerazione degli esordi si sono affiancate canzoni più ragionate e complesse, che non puntano solo sull’onda d’urto: penso alla zeppeliniana Stuck Here For Days, con la chitarra slide. Uno splendido pezzo nato, non a caso, dopo che i ragazzuoli avevano avuto a che fare con il bassista dei Led Zeppelin John Paul Jones, produttore del secondo album Outta Sight/Outta Mind. Ogni tanto i quattro si avventurano anche per lidi strumentali dilatati, combinando queste velleità psichedeliche con la durezza di fondo del loro sound. A seguire, arrivano i “classici” del devastante album omonimo di debutto, la thinlizzyana What Would I Know e lo speed garage di Fink For The Man. Vedendo che lì sotto il palco sono quello che si sbatte di più (non lo faccio apposta, è più forte di me), Phil si prende un secondo tra un pezzo e l’altro per stringermi la mano. Ironico saluto militare, poi si riparte, più posseduti di prima (sia lui sia io). Il mio Datsun del cuore (che all’anagrafe è Philip Buscke Somervell) fa la mummia, le braccia dritte davanti a sé, la testa bassa, lo sguardo assente, ma improvvisamente fa partire il pezzo più veloce e adrenalinico della storia del fottuto rock’n’roll, MF From Hell, e finalmente il pubblico partecipa alla grande: tutti seguiamo la voce al vetriolo di Dolf nello stop and go: «She makes me feel like / Like a motherfucker from hell»! Altra grande canzone del disco d’esordio è Harmonic Generator, tutta giocata sul groove che parte da un unico accordo, ripetuto da un immobile Phil. Quando poi il tono cresce e partono gli assoli, riecco il mummificato elettrificato! Vedere i Datsuns dal vivo è un imperativo categorico.
E insomma, dopo una bella ora e mezza di rock duro come pochi nel mondo oggi, e un doveroso bis, il concerto si chiude, e si chiude senza In Love. Ma come‽ Mentre Dolf è ancora sul palco a smontare (e io mi sono già intascato un suo plettro) gli chiedo spiegazioni, ma lui sorride e mi dice solo: «Well, no In Love tonight!». Non ne capisco il perché, comunque chiudo con «Great gig!». Intanto il dj ha attaccato con roba electro pop anni ’80 da ballare e Dolf, ancora sul palco, si lancia per scherzo in una finta danza scatenata da fanatico della house. Mente beviamo l’ultima birretta al tavolo in fondo e i festaioli travestiti che affollano il Latte Più Live formano trenini conga d’altri tempi, ricompaiono Phil e Ben. A questo punto, per curiosità, chiedo a Phil se non avere suonato In Love sia stata una scelta. Mi risponde di sì: per continuare a divertirsi, i ragazzi cambiano setlist tutte le sere, senza preoccuparsi di che cosa viene escluso, e il loro pezzo più famoso non fa eccezione. «Sometimes we play it, sometimes we don’t!», mi dice allegro, facendo spallucce. Nel complimentarmi e ringraziarlo, ribadisco che comunque non ero lì solo per quella canzone, ma per tutte, e lui lo sa (vista la stretta di mano di metà concerto, mi aveva già dimostrato di essersene accorto)! Salutato anche Ben, e fatte due chiacchiere con Fab dei Crooks (la sua definizione dei Datsuns: «Sono imbarazzanti da quanto sono bravi!»), lasciamo il posto.
Un concerto così è un concerto perfetto: niente stress, niente code chilometriche, un gruppo pazzesco visto da un centimetro. I Datsuns si possono davvero invidiare: sono abbastanza famosi da girare il mondo vivendo della loro musica, ma non devono convivere con i lati negativi dell’eccessiva celebrità. E soprattutto, come si evince da queste righe, sono per me una delle più fantastiche rock’n’roll band oggi in circolazione tra i due emisferi.
Carmine Caletti