Jethro Tull – Live @ Festival Acquedotte

«Ora suoneremo il brano musicale più antico di stasera. Non l’ho scritto io: l’ha scritto il re Enrico VIII all’inizio del XVI secolo, quando io portavo ancora i pantaloni corti». Ironizza così sulla propria età, mentre introduce Pastime With Good Company, la leggenda vivente Ian Anderson, a tre quarti del concerto dei suoi Jethro Tull in Piazza del Comune, lunedì 15 luglio, all’interno del Festival Acquedotte. E fa bene, visto che l’occasione per questo ennesimo (e forse davvero ultimo) tour della storica band inglese è proprio il cinquantenario (ormai superato) dalla fondazione e dalla pubblicazione del primo album, This Was (1968). E proprio da This Was, non a caso, Anderson attinge con abbondanza per comporre la scaletta dei brani: il duetto armonica/chitarra di Some Day The Sun Won’t Shine For You, l’ipnotica Beggar’s Farm, la batteristica Dharma For One e la medievaleggiante e folk A Song For Jeffrey provengono dall’ottimo, ancora poco progressive e ancora saldamente radicato nel blues e rhythm’n’blues, disco d’esordio.
I problemi vocali che affliggono Anderson già dalla metà degli anni Ottanta, intensificatisi negli ultimi due decenni, non hanno impedito alle note dei Jethro Tull – da sempre molto amati presso il pubblico italiano – di librarsi in una Piazza del Comune da tutto esaurito, tanto più che, nei larghi tratti strumentali in cui Ian sfodera il caratteristico flauto traverso, la figura del pifferaio magico torna a imporsi in proscenio come se ci trovassimo ancora nell’ætas aurea degli anni Settanta. Una succulenta scaletta da greatest hits, quella che Anderson – accompagnato da Florian Opahle alla chitarra, David Goodier al basso, John O’Hara alle tastiere e Scott Hammond alla batteria – snocciola davanti alla platea cremonese, intervallando i brani con brevi e divertenti aneddoti e optando per una vera e propria pausa di metà concerto, utile ad accaparrarsi una delle tante t-shirt con le date del tour stampate sul retro (che strana soddisfazione, scorrendo l’elenco, leggere il nome della nostra città appena dopo quelli di tre tappe californiane). Anche il secondo album dei Tull, Stand Up, che nel 2019 compie mezzo secolo preciso, è visitato a più riprese, dalla splendida Sweet Dream alla celebre Bourée, che trasporta la settecentesca suite per liuto di Johann Sebastian Bach (anzi, J.S., all’anglofona, come lo chiama Anderson) in territorio prog rock.
E ancora devo citare i pezzi che valgono una carriera: l’anticlericale (non antireligiosa, come tiene a specificare Ian) My God; il finale acustico di Thick As A Brick, a concludere la prima parte del concerto; la nostalgica Too Old To Rock ’N’ Roll: Too Young To Die!, datata 1976, ad aprire la seconda; le title track degli album del biennio 1977/’78, cioè Songs From The Wood e Heavy Horses. E infine, l’aspra critica sociale della leggendaria Aqualung, il brano manifesto del 1971, che innumerevoli anni, album e concerti dopo, si conferma la preferita di almeno due generazioni di fan.
Il tempo di lasciare il palco e rientrarvi poco dopo, ed ecco il bis, dallo stesso album, cioè l’immancabile Locomotive Breath, che senz’altro non avrà la carica esplosiva dei Jethro Tull all’apice della forma, ma che altrettanto certamente sa ancora emozionare. Ecco, emozionante: questo è l’aggettivo che mi sovviene mentre i cinque musicisti fanno gli inchini di rito a fronte palco, e che riassume la visita dei Jethro Tull sotto il Torrazzo, a maggior ragione alla luce della consapevolezza che potremmo aver visto uno degli ultimi concerti in assoluto della band di Ian Anderson, ascesa già da tempo all’Olimpo del rock.

Carmine Caletti