Molly Hatchet – Live @ Fillmore

Se il concerto dei Molly Hatchet si fosse tenuto anche solo una settimana prima, io l’avrei perso. E non per altri impegni, ma semplicemente perché fino a venerdì 28 novembre i Molly Hatchet erano per me solo uno dei tanti nomi del rock che non avevo mai preso in considerazione. E faccio pubblica ammenda di ciò.
Sabato 29 capita invece che il mio superamico Davide mi regali (in vinile!) il loro lp del ’79 Flirtin’ With Disaster, probabilmente il loro migliore disco in assoluto. La copertina trarrebbe in inganno chiunque: il dio nordico Thor brandisce minaccioso un’ascia insanguinata calpestando resti umani ossei. Insomma, si potrebbe pensare di avere a che fare con un gruppo epic metal. Macché: messo il disco sul piatto, dal fruscio dello scassone Radiomarelli portatile che mi vanto di possedere (un vero capolavoro di modernariato) emerge il più alcolico e ignorante southern rock pompato a mille che sia mai transitato per i miei timpani.
In settimana, dunque, ascolto a ripetizione il disco fino a svilupparne una sana dipendenza. L’incredibile – qui c’è lo zampino del Dio del rock’n’roll – si verifica alla mezzanotte tra giovedì 4 e venerdì 5 dicembre: ricevo una telefonata dalla mia ragazza, che negli ultimi giorni ha dovuto sorbirsi la mia crescente mania hatchetiana, e per caso ha appena letto un provvidenziale trafiletto sulla stampa locale.
«Ma tu sai che domani sera i Molly Hatchet suonano al Fillmore?».
Rimango lì immobile al cellulare, nel silenzio della mia camera, con la faccia di un alunno impreparato che temporeggia fingendo di ragionare su una risposta che non conosce. Quando riacquisisco parzialmente le facoltà comunicative, ringrazio la donna per l’illuminante segnalazione e, ventuno ore dopo, Davide e io siamo sulla sua Panda rossa in direzione Cortemaggiore.
Il pubblico è composto principalmente da motorocker e fusi di testa e, nella sua composizione, è quanto di meno cool si possa immaginare: maschi di mezza età, oscillanti tra il grassottello e il ciccione andante; chiome rade e/o ingrigite; barbe imponenti; zero ragazzini (i più giovani, tra cui noi, superano il quarto di secolo); una femmina ogni mille paganti. Una data per appassionati, nerd del rock tipo me e pochi altri. Con i gomiti sulla transenna siamo belli comodi, possiamo appoggiare le birre direttamente sul palco. Alle nostre spalle, durante l’attesa, il Fillmore si riempie a buoni livelli.
Alle dieci e mezza attacca il gruppo di supporto: i bolognesi Markonee ci offrono tre quarti d’ora di ottimo hard rock grosso e martellante, con influenze heavy. Il più navigato della band è il chitarrista solista Stefano Peresson, che sfoggia delle Converse da basket con la fantasia a teschi e fa l’assolo in tapping scroccandomi un sorso di birra mentre io piazzo l’indice su un tasto a caso della sua chitarra e lui mi regala il plettro (ok, non tutto così contemporaneamente). Gabriele Gozzi, il cantante, dispiega alla grande la sua voce alta e pulita; Carlo Bevilacqua è un chitarrista ritmico da sballo (e che presenza scenica! E che pantaloni di pelle a zampa!). Mi piace pensare che siano il basso granitico di J.J. Frati e la batteria al tritolo di Ivano Zanotti (cresta e maglietta di Pac-Man!) a generare la scossa sismica che fa crollare un paio di testate dal muro di amplificatori Marshall a fondo palco. Christian e gli altri solerti roadie sistemano tutto a tempo zero. Tra cori (c’è anche la canzone omonima) e applausi, l’esibizione dei Markonee volge al termine.
È quasi mezzanotte quando, finalmente, un faro si dirige sull’enorme telo con il logo dei Molly Hatchet e il sestetto di Jacksonville, Florida, fa il suo ingresso in scena. L’ovazione dei rocker sotto il palco ha un’altra impennata perché si parte subito con un pezzo storico, Whiskey Man, che è anche la canzone che apre Flirtin’ With Disaster! C’è già dell’amore nell’aria. La prima cosa che mi balza agli occhi è che, età avanzata nonostante, i ragazzi sono dei capelloni paurosi (a parte John Galvin, il tastierista). Purtroppo sono quasi tutti sformati da quell’obesità tipicamente americana, frutto di decenni di cibo spazzatura più che di eccessi da rocker. Si salva quel fico invecchiato bene del bassista, Tim Lindsey, che ha fatto parte nientemeno che dei Lynyrd Skynyrd, le leggende del southern rock, e ha i jeans dentro un paio di stivali zebrati che rivendicano orgoglio tamarro. L’unico ancora nel gruppo dai giorni di gloria di fine anni ’70 è Dave Hlubek, chitarrista ritmico, il più oversize, mentre il solista Bobby Ingram porta una permanente bionda e cotonata che farebbe invidia a Joey Tempest degli Europe, ostentandola con il coraggio di un ultracinquantenne panzone (troppo facile esagerare coi capelli solo quando si è giovani e belli e truccati e con gli addominali a tartaruga). Il batterista Shawn Beamer, per non essere da meno, si è munito di un ventilatore supersonico che, puntato sulla faccia, fa volare la sua chioma color grano tutto attorno alla testa, come la criniera di un leone. Resta il cantante, Phil McCormack, un vero soggetto da localaccio americano: presenza che intimorisce, baffi a manubrio, lunghi capelli dorati, volto segnato più o meno da tutto, voce rotta e grezza. In un minuto di saluti di presentazione ha già detto quattordici volte «Fuckin’» e nove volte «Hell yeah!», facendocelo ripetere in coro. Se secondo lui non facciamo abbastanza casino si indispone e quando, infine, ululiamo come dei lupi mannari, ci dà la sua benedizione: «Now you know what I’m fuckin’ talkin’ about» (o qualcosa del genere). I pezzi scorrono uno dopo l’altro come un flusso continuo: di roba dall’unico disco che conosco neanche l’ombra, ma chi se ne frega: ogni canzone è gioia assoluta. Bobby Ingram infila una serie di assoli lunghissimi, uno più bello dell’altro, sulla sua splendida PRS Custom Sunburst con i segnatasti a sagoma di volatili. Il volume generale è impressionante e questo va a scapito di Phil McCormack, la cui voce fatica a imporsi sugli altri strumenti. È soprattutto Bobby Ingram ad avere un suono davvero altissimo, ma gli perdono l’egocentrismo, visto che è un asso della sei corde. I suoi plettri volano a ripetizione, come boomerang, e uno lo agguanto io. McCormack dedica un pezzo a tanti grandi rocker del passato, da Elvis Presley a Mitch Mitchell, scomparso poche settimane fa, batterista di Jimi Hendrix. Come in tutti i veri concerti di classic rock, cantante e chitarristi si eclissano dal palco in un paio di occasioni, per lasciare spazio a un assolo di batteria prima e a un intermezzo di tastiere poi. Ma i ragazzi hanno voglia di divertirsi: i quattro in prima linea si mettono in fila a fronte palco, muovendo a tempo su e giù microfono, chitarre e basso. Oppure, mentre Ingram fa viaggiare le dita a razzo sulla chitarra, McCormack («We’re proud to be americans!») gli sventola alle spalle la bandiera degli Stati Confederati, quella che in teoria sarebbe oggi la bandiera americana se centoquarantatré anni fa avessero vinto i grigi del generale Lee anziché le giacche blu di Custer (il mondo sarebbe un posto ancora peggiore. Preferisco mettermi i paraocchi e interpretare la bandiera sudista solo come un simbolo di ribellione romantica al potere ufficiale, sorvolando sul fatto che nacque come stendardo sotto il quale si riunirono un mucchio di stronzi fanatici ottusi razzisti che nel cervello avevano la convinzione che fosse giusto schiavizzare i neri, e nel fegato le prove inconfutabili di un serio problema con la bottiglia). Lo strepitoso bis si apre con la cover di uno dei classici dei Lynyrd Skynyrd, la stupenda ballata Free Bird. Bobby Ingram, che intanto ha cambiato chitarra sfoderando una Epiphone Explorer, è assoluto protagonista, prima con il commovente riff in slide durante le strofe, poi con l’oceanica cavalcata finale, un assolo interminabile, eseguito a velocità vertiginosa, ma allo stesso tempo profondamente emozionante, che esalta la magia di tutta la serata. La chiusura è riservata alla title track del 33 giri che ha fatto da colonna sonora alla mia settimana: Flirtin’ With Disaster! La gente aspettava soprattutto questo pezzo: cantiamo in tanti, la band è all’apice, chiusura col botto, inchino.
Nel backstage facciamo la conoscenza del cantante dei Markonee, che ci spiega che leggenda vuole che il nome del gruppo sia stato ispirato da Zakk Wilde (!), poi catturiamo quasi tutti i Molly Hatchet per un saluto e una fotografia insieme. Lo scatto più importante è proprio quello con Dave Hlubek, che durante il concerto se n’è stato spesso in disparte, la sigaretta accesa infilata nella paletta della chitarra, quasi a non voler far pesare il fatto di essere l’unico membro fondatore ancora nel gruppo. La sua stretta di mano e il suo sorriso bonario fissato dal flash rivelano, dopo tanti anni, l’ancora integra passione per il mestiere. Lo ringrazio per il meraviglioso concerto e mi ringrazia a sua volta, guardandomi negli occhi. Grandissimo Dave e grandissimi Molly Hatchet. Anche se la loro era è tramontata da un pezzo, si è pur sempre trattato di un tramonto scintillante, uno di quelli che a fine giornata si possono ammirare all’orizzonte, giù negli Stati del Sud.

Carmine Caletti