
Scrive anche testi teatrali.
In più fa il cantautore.
Il suo disco La Vita Sulla Terra, uscito nell’aprile del 2004, raccoglie dodici canzoni scritte nel corso dei tre anni precedenti. Dura quasi un’ora (54:32), perché i pezzi sono belli lunghi. Si sente forte e chiara l’influenza della scuola dei cantautori genovesi, De André su tutti (sia nelle tematiche affrontate sia nell’impostazione vocale), ma anche di altre contaminazioni.
7 miliardi è quasi una filastrocca dal sapore latineggiante; Black Bloc Ballad si erge a difesa di un personaggio universalmente riconosciuto come indifendibile (tecnica di cui era maestro De André), donandogli un’aura romantica e andando a trovare il marcio da altre parti; Livingstone è un pezzo swing che parla di un avventuroso viaggio, sarebbe piaciuto a Salgari, oggi piacerebbe a Salvatores; 13/5/01 è una ballata d’amore che rievoca sensazioni passate, vicine al periodo della vittoria di Berlusconi alle elezioni (senza mai citare la cosa, però, piuttosto sfiorandola con l’accenno agli exit poll); La Vita Sulla Terra è un pezzo alla Paolo Conte, parla di tradimento, pugni, abbandono e di una nottata alcolica al bar; Gli Asiatici, quasi solo voce e chitarra, è un brano evocativo, ricco di immagini oniriche riferite alla visione di un tempio in Estremo Oriente; Il Pezzo Di Sinistra è un inno apolide, che racconta della piazza, della libertà, dei canti, anche con autoironia (le immagini volutamente stereotipate della canzone resistente alla Guccini); I Nostri Civili è un jazz latino, a tratti bossanova, caratterizzato da un forte antimilitarismo («Colpite i civili!»); poi c’è il pezzo più lungo del disco, Giuliano: a parlare in prima persona è… Giuliano Ferrara, che si divide tra i ricordi del passato comunista (con la riproposizione dei versi dell’Internazionale) e il presente di giornalista cinico e amorale, ma deve fare i conti con la voce della propria coscienza, che lo chiama («Giuliano…»), e alla fine non si sa se sia stato sogno o realtà. Si fila verso il finale del disco: Made In China è una sintesi della vita “produci-consuma-crepa”, con l’aggiunta dello spettro della paura dell’altro che diventa razzismo; Chiamata Del Porto (30 giugno 1960) fa ancora il jazz, questa volta cantato in dialetto, contro i padroni e i fasci. Una vera canzone combat, a dispetto della leggerezza musicale; l’ultima traccia è J’Aime Le Monde, degna conclusione di questo bel disco: è un’indiscriminata e dissacrante dichiarazione d’amore per l’umanità in quanto tale, quindi comprese tutte le sue nefandezze (ma ogni tanto fa capolino anche qualcosa di positivo), che si chiude con l’immagine suggestiva di Gagarin che, nel ’61, scatta una fotografia dallo spazio a quella piccola biglia che chiamiamo Terra.
Carmine Caletti